Venerdì è uscito sul Manifesto un articolo dedicato alle realtà delle polisportive e palestre popolari che si sono ritrovate sabato e domenica 14 e 15 gennaio ad Ancona. Vi proponiamo l'articolo integrale...
A Roma ce n'è una intitolata a Valerio Verbano, giovane militante dell'Autonomia operaia trucidato dai fascisti nel 1980. A Bologna è nata per iniziativa dei militanti del Teatro Polivalente Occupato ed è frequentata da studenti universitari e immigrati. Viaggio nel mondo delle palestre popolari, tra calcio, kickboxing e politica.
I raggi di sole filtrano tra gli alberi del giardino e iniziano a scaldare una domenica di gennaio inevitabilmente piuttosto fredda. I ragazzi arrivano un po' assonnati. Siamo nel Centro sociale Asilo Politico dove deve tenersi la prima assemblea nazionale delle palestre popolari e delle polisportive antirazziste. Ieri c'è stato un prologo con un torneo di calcio a tre. Poi il terzo tempo organizzato dalla Assata Shakur e la sera musica. «Capperi come ci davano giù quelli della squadra del Camerun» dice Max della Polisportiva San Precario di Padova. Abbiamo l'appuntamento con lui e altri rappresentanti di alcune tra le realtà più importanti presenti all'incontro, per farci raccontare le loro storie, l'attività che svolgono. Oltre a Max partecipano alla nostra "tavola rotonda" Luca e Simone della Palestra Valerio Verbano di Roma, Roberto della Palestra popolare del centro sociale Tpo di Bologna.Percorsi che iniziano in tempi diversi, realtà che praticano discipline non sempre simili, ma accomunate da un unico concetto: anche lo sport è un bene comune.
«Quasi tutte le palestre popolari romane nascono come emanazione di soggetti sociali», inizia a raccontare Simone. «Prima di tutto abbiamo dovuto fare i conti con un pregiudizio, una falsa coscienza, per cui avere cura del proprio corpo era una cosa di destra». Una forma mentis che non è stata facile da scardinare perché ha dovuto abbattere un retroterra culturale vecchio di anni. «Le difficoltà all'inizio ci sono state, visto che a frequentare la palestra erano principalmente militanti e simpatizzanti». Una storia importante quella della Verbano, nata nel 2005 dopo l'occupazione di un locale di ex caldaie nel quartiere del Tufello dove, appunto, viveva Valerio Verbano, giovane militante di Autonomia Operaia, barbaramente ucciso, nel 1980, da un commando di fascisti nell'appartamento dove abitava con i genitori. «Valerio - sottolinea Luca - oltre ad essere un compagno impegnato nei movimenti era anche uno sportivo, da qui l'idea di intitolargli il nome della palestra popolare». Inizialmente a frequentare la Verbano sono i giovani del centro sociale, ma poi le cose cambiano. «Il successo della nostra esperienza - prosegue Simone - sta proprio nell'essere riusciti a coinvolgere pezzi di società con cui non avremmo mai potuto avere relazioni. Chi è venuto da noi lo ha fatto in modo "laico", erano persone "normali", privi di particolari ideologie, consapevoli anche dei propri limiti in un ambito dove questi limiti venivano valorizzati, non discriminati».Un percorso che nasce in un contesto specifico, ma che acquista la capacità di iniziativa autonoma, misurandosi su una tematica come quella dello sport sicuramente non abituale.
«Il nostro lavoro - rileva Luca - ha avuto ricadute positive sugli stessi centri sociali, favorendo un'aggregazione più ampia, non autoreferenziale». Alla Verbano si possono praticare le principali arti marziali, dal karate al kung fu, ma anche attività di danza. Attualmente sono iscritti 150 praticanti, di cui un 30% sono bambini. «Ci sono persone di tutte le età, anche se la maggior parte sono comprese tra i 18 e i 32 anni. Sono numerosi i nuclei familiari al completo». Proprio nei giorni precedenti all'incontro di Ancona si è tenuta una riunione di tutte le palestre popolari romane. Un appuntamento utile per conoscersi meglio e fotografare realtà che dal punto di vista sportivo ormai hanno raggiunto livelli di assoluta eccellenza, visto che alcune hanno conquistato titoli mondiali nella kickboxing, o titoli nazionali nel pugilato.
A Padova invece la Polisportiva San Precario punta decisamente su discipline più tradizionali. «Abbiamo iniziato nel 2007 - racconta Max - con una squadra di calcio iscritta al campionato di III categoria. A seguire sono nate le squadre di volley e quella di calcetto». Anche qui prima di iniziare si sono dovute superare certe diffidenze. «Il movimento a Padova era un po' come voi del manifesto. Lo sport veniva relegato in qualche fondo pagina. Invece dopo un ampio confronto, che ha coinvolto un bel gruppo di persone, ci siamo resi conto che stavamo commettendo un grosso errore. Infatti per noi lo sport oltre ad infondere benessere, pensiamo vada inteso come bene comune, fa parte del bios. Può aiutare a sviluppare cittadinanza, inclusione, integrazione». E proprio a partire da questi concetti la San Precario si è iscritta alla Federazione Gioco Calcio non per velleità professionistiche, ma per stare dentro determinati centri di potere dove «oltre a girare un sacco di soldi si innescano meccanismi di potere, di controllo». Da qui una specifica campagna con al centro i giovani migranti di seconda generazione, ma anche i loro fratelli più adulti che trovano forti difficoltà a trovare spazio nei campionati federali. «Un impegno che vorremmo condividere con altre polisportive simili alla nostra, per eliminare una vera e propria discriminazione nei confronti di questi ragazzi».
Un impegno sociale presente anche nella Palestra Popolare di Bologna. «Dopo una fase di piccolo cabotaggio - dice Roberto - abbiamo sviluppato un lavoro più incisivo perché ci siamo resi conto che l'attività andava affrontata con maggiore serietà». Anche qui è il calcio a fare da padrone. «Siamo partiti con una squadra a sette iscritta al torneo Uisp, ma ora vorremmo fare il salto di qualità con il team da 11». Non c'è solo il pallone, visto che tra i corsi principali ci sono la thai e il pugilato. «Siamo nati nel 2007, ora abbiamo 160 iscritti. La crescita c'è stata soprattutto negli ultimi due anni. La fortuna è stata quella di avere tra gli istruttori Riccardo Pedrini, campione internazionale di thai». La maggior parte dei frequentatori sono studenti universitari, cosa inevitabile per Bologna, ma grazie al lavoro del centro sociale sui migranti ora c'è una forte presenza di ragazzi di origine straniera. «Siamo andati a giocare dentro il carcere minorile per lanciare un ponte verso una realtà spesso dimenticata, ma anche per mettere alla prova noi stessi e capire che si parte dallo sport per poi toccare temi sociali Lo sport per noi è una passione rimasta a lungo rimossa perché poteva capitare che dentro il centro sociale c'erano ragazzi che praticavano la boxe e neanche lo sapevi...». Insomma, da un lato c'è la scoperta di un qualcosa prima ignorato o nascosto perché "non politicamente corretto", dall'altro la consapevolezza che tramite la pratica sportiva si possono favorire percorsi di partecipazione anche difficili.
«A Cinecittà - evidenzia Luca - i corsi di boxe e kickboxing sono frequentati dai ragazzi dei campi rom. È stato un esperimento interessante vedere come la rabbia di chi viene recluso in strutture che sono delle carceri a cielo aperto, si è convogliata positivamente in un percorso sportivo che ha portato a successi significativi. Nello stesso tempo all'interno della palestra si è affermato un discorso antirazzista, che ha coinvolto gli altri frequentatori. Si è fatto un lavoro virtuoso inverso rispetto al tradizionale. Non è stato il centro sociale a sviluppare un impegno civico e poi trasmetterlo nell'ambito sportivo ma viceversa».
Un altro sport è possibile. Anzi esiste già.
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