mercoledì 14 marzo 2012

Gioco anch'io di Stefano Ferrio

Pubblichiamo questo pezzo di Stefano Ferrio scritto a sostegno della campagna "Gioco Anch'io", pubblicato sul blog "Il Razzismo è una brutta storia"

“Gioco anch’io”. Un “assoluto calcistico” come Mario Balotelli, e quanti gli stavano
vicino, l’hanno ripetuto fino a stancarsi prima che i padroni del pallone italiano
capissero quanto fosse opportuno, innanzitutto per i loro comodi, far indossare la
maglia azzurra a un talento del genere. Ed è lo stesso “eccomi qua” vanamente
pronunciato in Italia da migliaia di altri stranieri attualmente lasciati fuori dalle
norme federali solo perché meno bravi di Supermario a fare gol, così come, in altri
sport, a schiacciare, tirare da tre punti, correre per dieci secondi o per ore intere prima
di tagliare un traguardo. Triste regola non scritta della partecipazione condizionata
dai privilegi, nota in questo Paese ben prima del “Vengo anch’io, no tu no” inciso da
Enzo Jannacci nel jukebox della nazione.
Andando in cerca di utili parabole, “Gioco anch’io” era un coro che ai miei tempi
riempiva ogni angolo di cortile, oratorio, parco pubblico, spicchio di prato conteso al
nulla edilizio. Bastava che in uno di questi stadi di fortuna qualcuno facesse
rimbalzare un pallone, e subito scampanellii di bici annunciavano le rituali grida,
“Gioco anch’io”, lanciate dai Michele, dai Massimo, dai Gigi e dagli Oscar assieme a
cui si imparava a vivere.
Chi c’era, e a giocare provava, ricorda ancora con angoscia quando, una volta
radunatisi per la conta, ci si trovava in numero dispari, tipo nove o undici “bocia”,
come in Veneto sono chiamati i bambini usando una parola che, quanto a bellezza,
compete con ninos e kids. Così il pari o dispari per fare un quattro contro quattro o un
cinque contro cinque ne lasciava fuori uno, di “bocia”, generalmente il più piccolo,
per questo motivo chiamato “boceta”, quando invece non era il più ciccione o il più
brocco costretto a starsene dietro una porta con le lacrimone trattenute sotto le
palpebre, sperando che passasse per di là un qualsiasi “decimo” o “dodicesimo”
grazie a cui entrare in campo pure lui.
Io, che a sette anni fuggivo ovunque da me stesso, fino a mischiarmi alle compagnie
dei più grandi, sono stato il nono o l’undicesimo “boceta” un numero sufficiente di
volte da ricordare perfettamente la desolante umiliazione di essere espulso ancora
prima della partita, e senza avere commesso alcun fallo. Per cui, così tanto tempo
dopo, rivedo come fosse adesso i miei piedi tenuti rigorosamente fuori da una linea
bianca neanche tanto immaginaria, in un’autentica terra di nessuno dove sentirsi più
inservibile dei maglioni usati per fare i pali delle porte.
D’altra parta, riprendendo antichi dibattiti, un po’ di personale è indispensabile per
dare anima a ciò che è politico. In tal senso, nulla appare oggi ai miei occhi più
politico di una qualsiasi battaglia intrapresa in nome dei diritti. Figurarsi se questi
ultimi riportano, nel nome stesso, al “Gioco anch’io” di tanti pomeriggi in cui si era
esclusi da emozioni senza risarcimento - semplicemente perché senza prezzo – come
i colpi di testa, le mischie in area piccola, i lanci del portiere da inseguire sempre e
comunque, i colpi d’anca fallosamente inferti all’avversario, i “tre corner rigore” che
meriterebbero almeno un romanzo per essere doverosamente tramandati.
Ne discende l’adesione necessaria, quanto entusiastica, alla campagna “Gioco
anch’io” lanciata in un luogo di per sé mitologico come l’Assemblea nazionale delle
polisportive e delle palestre popolari, svoltasi lo scorso 15 gennaio ad Ancona.
Ovvero uomini e donne felici di tirare al volo, alzare pesi, sfidare cronometri, e nuotare una vasca dopo l’altra, innanzitutto per il piacere di condividere con altri
uomini e donne il piacere di sudare, provarci, e semplicemente “esserci”. Da loro, dal
poderoso e multiforme movimento a cui danno vita, nasce l’appello lanciato affinché
siano cancellate dai regolamenti delle varie federazioni le norme che limitano per i
migranti e i loro figli le possibilità di giocare o praticare sport agonistico.
Balzano agli occhi le affinità di “Gioco anch’io” con le due sottoscrizioni lanciate
dalle diciannove organizzazioni ritrovatesi nella campagna “L’Italia sono anch’io”.
Una è a favore del diritto di voto amministrativo per gli stranieri almeno da cinque
anni regolarmente presenti nel nostro Paese. L’altra sostiene la cittadinanza da
concedere per legge ai figli di extracomunitari nati in Italia, ovvero gli stessi bambini
destinati a diventare quei piccoli Balotelli di ogni razza e colore faticosamente in
cerca di un posto nelle squadre giovanili dei vari campionati locali e regionali.
Sono civili battaglie intraprese soprattutto per ridurre e coprire un immenso vuoto.
Quello che in Italia tuttora giganteggia fra le curve che continuano a ostentare il loro
protervo razzismo contro giocatori come il romanista Juan, solo per citare il caso più
recente, e meravigliose squadre di strada come la Polisportiva Independiente che
nella mia Vicenza ha appena lanciato una campagna per sostenere allenamenti e
partite di calcio dei profughi fuggiti dalla guerra civile scoppiata in Libia. Welcome
Team è il nome dato a questo nuova squadra. Accolta a braccia aperte dove per
scendere in campo basta solo dire “Gioco anch’io”.
Stefano Ferrio

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