Colpi di tacco, politica e medicina. La rivoluzione permanente di Socrates
La passione per John Lennon e Che Guevara, la battaglia contro la dittatura brasiliana e la passione per fumo e alcol
È bene per prima cosa sapere che il Brasile è un Paese pieno di gente con nomi assurdi. Per dire, Julio Cesar da Silva, non il portiere dell'Inter ma il difensore centrale della Juventus dei primi anni 90, ha un fratello che si chiama Napoleone Bonaparte da Silva, perché il loro padre aveva una passione per gli imperatori. Dal punto di vista anagrafico, c'è una coerenza che si ritrova nella famiglia di Socrates, i cui fratelli si chiamano Sostenes e Sofocles (oltre a Rai, altro ex nazionale brasiliano).
La qual cosa, spiegava Socrates stesso, gli cambiò non poco la vita. Il padre infatti veniva da famiglia poverissima ed era un autodidatta che si riempì la casa di libri. E il fatto di essere impegnato a diventare un giocatore di fama mondiale e di studiare Medicina non impedì a Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, morto domenica mattina a 57 anni, di leggere Platone, Machiavelli e Hobbes per poi impegnarsi in politica. E fu forse in omaggio al realismo in politica che nel 1964, anno del golpe militare in Brasile, il padre di Socrates prese da uno degli scaffali della biblioteca un libro sui bolscevichi e lo bruciò, probabilmente per evitare guai a sé e alla sua famiglia. Prudenza comprensibile, ma con un effetto collaterale: che fece diventare definitivamente Socrates di sinistra.
Tutto questo, e molto altro, il Doutor ha raccontato ad Alex Bellos in Futebol (Baldini Castoldi Dalai editore, 2003), splendido viaggio nel calcio brasiliano che si chiude proprio con una lunga intervista al capitano del Brasile ai Mondiali 1982 e '86: «Ho dovuto diventare un bravo giocatore per necessità. Per prima cosa sono un tipo impaziente (...). Secondo, più irraggiungibili sembrano le mete, più ci si sente stimolati. Giocavo a calcio, ma stavo anche per diventare medico. Da me si aspettavano che fossi il più ingegnoso di tutti. Se non avessi studiato Medicina sarei stato un giocatore più limitato». Basterebbero davvero queste poche righe a dare l'idea dell'eccezionalità del personaggio, ma Socrates è stato davvero molto di più.Il Corinthinas in campo con i numeri e la scritta «Democracia» a rovescio per protesta contro la dittatura. Socrates ha il numero 8 (dal libro «Futebol» di Alex Bellos)
Come ricorda Bellos, nel 1982 il Corinthians di San Paolo vinse il campionato statale con la parola «Democracia» stampata sulle magliette. Una vittoria che, per Socrates, fu «probabilmente il momento più perfetto della mia vita, e sono sicuro che lo è stato anche per il 95% degli altri». Era il punto di arrivo di una battaglia iniziata 4 anni prima, con la «Democrazia corinthiana» (la Grecia, ancora), cioè il tentativo di trasformare una squadra di calcio da sistema fondamentalmente gerarchico a cellula socialista in cui le decisioni grandi e piccole venivano prese all'unanimità. Si partiva dall'orario dei pasti («venivano proposte tre soluzioni diverse che poi dovevano essere votate. E si accettava la scelta della maggioranza. Non emersero mai problemi») e si finiva col ritiro, considerato da Socrates l'estensione dell'autoritarismo della dittatura alla quotidianità di una squadra di calcio: «Il fine ultimo della concentração è di umiliare le persone. È come dire: "Tu non vali niente, sei un irresponsabile, devi essere tenuto sotto sorveglianza". È una cosa stupida. Tanto più uno sta bene, tanto più uno gioca bene».
Nel calcio blindato di oggi, questa può essere un'utopia che strappa un sorriso. Ma sotto una dittatura sudamericana (per quanto non dura come quelle argentina o cilena), il significato simbolico fu tutt'altro che trascurabile. Tant'è vero che nel novembre 1982 il Corinthians scese in campo con la scritta «Il 15 andate a votare» per le elezioni che avrebbero segnato un primo passo verso la democratizzazione del Paese. Due anni dopo, racconta sempre Bellos, Socrates parlò davanti a un milione e mezzo di persone, promettendo che sarebbe rimasto in Brasile se fosse passato un emendamento costituzionale che ristabilisse libere elezioni presidenziali. Non passò. E Socrates andò alla Fiorentina.
Com'è noto, la sua avventura italiana non fu entusiasmante, e probabilmente c'entra anche il fatto che il fumo e l'alcol non sparirono mai dalle sue abitudini: «Ho provato a smettere cinquantamila volte. Ho provato anche oggi, ma ho resistito fino alle 11 del mattino. L'unico quesito filosofico che mi pongo è: «Perché mai dovrei cercare di fingermi diverso da come sono?"».
Non lo fece mai, in effetti. Non nascose le sue passioni per John Lennon e Che Guevara, ma nemmeno le sue convinzioni sul calcio contemporaneo: era l'evoluzione atletica del calcio (che per lui era probabilmente un'esasperazione) ad aver intasato gli spazi del campo: «Tutti gli sport hanno adattato le loro regole allo sviluppo fisico umano, ma il calcio non l'ha mai fatto». Perciò la soluzione per ricominciare a vedere del calcio divertente era una sola: ridurre le squadre a nove calciatori: «Per consentire ai giocatori di sfruttare maggiormente le loro abilità tecniche, è necessario compensare l'evoluzione fisica degli atleti».
Affascinante, certo, ma anche bizzarra teoria, questa di Socrates. D'altronde, parliamo di un uomo entrato nella storia del calcio per i suoi colpi di tacco, cioè l'espediente appunto più affascinante e bizzarro che un calciatore (oltretutto alto 1,92) abbia a disposizione. Si potrebbe osservare che - come infatti pensarono in molti durante la sua non fortunata parentesi italiana - si trattava di orpelli superflui in assenza di ben altra sostanza, e infatti il suo Brasile non vinse mai nulla. Ma chi ha visto giocare quella squadra - esattamente come l'Olanda di Cruijff - la porta nel cuore per sempre, a dispetto del fatto che né l'una né l'altra abbiano mai vinto alcunché. È alquanto probabile che questa fosse tra le cose di cui Socrates sia andato più fiero. Adeus, Doutor.
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