
Uploaded with
ImageShack.us
Vedere il video degli studenti padovani caricati dalla polizia il 14 Novembre anticipato dall'ordine "fracassateli tutti" e leggere che gli otto poliziotti, imputati per il pestaggio di Paolo Scaroni, siano stati tutti assolti è un qualcosa che fa salire lo spread dell'acabismo alle stelle. La vicenda di Paolo, massacrato di botte dalla Polizia, uscito dal coma per miracolo e ora invalido al 100%, è stata vergognosamente taciuta per anni ed è incredibile come non sia emersa al di fuori del mondo delle curve. Lo stadio di Verona è da anni una palestra di controllo e repressione e i tifosi ospiti sono spesso valvola di sfogo per i celerini. Ecco la vicenda di Paolo in sintesi, perchè ancora troppi pochi ne sono a conoscenza.
Un giovane tifoso del Brescia massacrato a manganellate che
finisce in coma. I medici lo danno per spacciato: se ce la farà a
sopravvivere, dicono ai genitori, "sarà un vegetale". Dopo più di un
mese di buio, invece, il ragazzo si risveglia. Parla, anche se con molta
fatica. E' ancora intubato quando, alla fine del 2005, comincia a
raccontare tutto a una poliziotta, che ha il coraggio di aprire
un'inchiesta sui colleghi. La commissaria indaga in solitudine. Scopre
verbali truccati. Testimonianze insabbiate. Filmati spariti. Poi altri
poliziotti rompono l'omertà e sbugiardano le relazioni ufficiali di un
dirigente della questura. Un giudice ordina di procedere. E adesso, a
Verona, sta per aprirsi un processo simbolo contro otto celerini del
reparto di Bologna. Una squadraccia, secondo l'accusa, capace non solo
di usare "violenza immotivata e insensata su persone inermi", ma anche
di inquinare le prove fino a rovesciare le colpe sulle vittime.
"L'Espresso" ha ricostruito i retroscena di quella misteriosa giornata
di guerriglia tra tifosi e polizia, con testimonianze e filmati inediti,
scoprendo un filo nero che collega tanti casi in apparenza separati di
degenerazione delle divise. Un viaggio nel male oscuro che contamina e
divide le nostre forze di polizia.
"La mia storia è simile
a quella di Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo
Giuliani... La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare".
Paolo Scaroni oggi ha 34 anni e il 100 per cento d'invalidità civile.
Cammina per Brescia, la sua città, strascicando un piede rimasto
paralizzato. La voce esce spezzata e lui se ne scusa ("Sono i postumi
del trauma"): "Sono molto legato ai familiari di Aldovrandi. Suonava il
clarinetto come me, nelle nostre vicende ci sono coincidenze
incredibili. Io sono stato massacrato alle otto di sera, lui è stato
ammazzato la stessa notte, sei ore dopo. Ora vogliamo fondare
un'associazione: familiari delle vittime della polizia". Suo padre,
bresciano di Castenedolo, capelli bianchi e mani callose, riassume il
problema scuotendo la testa: "Ho sempre avuto rispetto delle forze
dell'ordine. Ma adesso, quando vedo un'uniforme, non ho più fiducia".
Quello di Paolo è un dolore speciale: "Oggi la cosa che mi fa più male è
che mi hanno cancellato l'infanzia e l'adolescenza. Ho perso tutti i
ricordi dei miei primi vent'anni di esistenza"
La vita del ragazzo
senza memoria è cambiata il 24 settembre 2005. Paolo, allevatore di
tori, fisico da atleta, è in trasferta a Verona con 800 tifosi. Il suo
gruppo, Brescia 1911, è il più popolare e radicato. Hanno un loro
codice: botte sì, ma solo a mani nude. "Niente coltelli, no droga",
scrivono sugli striscioni. In quei giorni si sentono scomodi: tifosi di
provincia che protestano contro "i padroni del calcio-tv" e "le
schedature". Dopo la partita, i bresciani vengono scortati in stazione. E
qui si scatena l'inferno: tre cariche della celere, violentissime.
L'inchiesta ha identificato 32 tifosi feriti, quasi tutti colpiti alla
schiena. Foto e video recuperati da "l'Espresso" mostrano, tra gli
altri, una ragazza con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma
cranico e mani fratturate. Paolo ha la testa fracassata: salvato dagli
amici, si rialza, vomita, sviene. Alle 19,45 entra in coma. L'ambulanza
arriva con più di mezz'ora di ritardo.
Secondo la
relazione ufficiale firmata da F. M., dirigente della questura di
Verona, la colpa è tutta dei tifosi. Il funzionario dichiara che gli
ultras bresciani "occupavano il primo binario bloccando la testa del
treno", con la pretesa di "far rilasciare due arrestati". Appena le
divise si avvicinano, giura il pubblico ufficiale, "il fronte dei tifosi
assalta i nostri reparti con cinghie, aste di ferro, calci, pugni e
scagliando massi presi dai binari". La celere li carica "solo per
prevenire violenze sui viaggiatori". Paolo non è neppure nominato: una
riga nella penultima pagina del rapporto cita solo "un tifoso colto da
malore a bordo del treno". Chi lo ha picchiato? "Scontri con gli ultras
veronesi", è la prima versione, che crolla subito: la stazione era
vuota, dentro c'erano solo i bresciani scortati dagli agenti. Quindi un
celerino ne racconta un'altra: Paolo sarebbe stato ferito da "uno dei
massi lanciati dagli ultras" suoi amici.
Da quel giorno, per tre
mesi, i tifosi di Brescia 1911 smettono di andare allo stadio: la
domenica vanno a Verona in ospedale a tifare per Paolo. Che il 30
ottobre, quando ogni speranza sembra spenta, improvvisamente si
risveglia durante un prelievo di sangue. In novembre la poliziotta
Margherita T. riesce a interrogarlo. Mozziconi di frasi, che
ricostruiscono il pestaggio: "Erano almeno quattro celerini, con i
caschi. Mi urlavano: bastardo. Picchiavano con i manganelli impugnati al
contrario per farmi più male". E non volevano solo immobilizzarlo: i
referti medici confermano che Paolo è stato colpito "sempre e solo alla
testa".
La poliziotta interroga il personale del treno. E
scopre che la storia dei binari occupati dagli ultras era una balla. "I
tifosi erano assolutamente tranquilli, noi eravamo pronti a partire: non
ho visto nessun atto di violenza, provocazione o lancio di oggetti",
dichiarano i macchinisti. Ma chi ha scatenato il caos? Quattro agenti
della polizia ferroviaria testimoniano che "i disordini sono cominciati
solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro uno scompartimento
dove c'erano tante donne e bambini piangenti". Particolare importante:
"Prima non avevamo visto nulla che giustificasse il lancio del gas".
Solo allora "un centinaio di tifosi, arrabbiati e lacrimanti, ci hanno
minacciato, chiedendoci come fosse possibile lanciare lacrimogeni su un
treno con bambini". Ma subito, dicono gli stessi agenti, "i capi ultras
si sono messi in mezzo, facendo da pacieri, per calmare gli altri tifosi
dicendo che noi della Polfer non c'entravamo". In quel momento la
celere carica l'intera tifoseria. Seguono 30 minuti di macelleria da
Stato di polizia.
La verità dei fatti è confermata anche
dai funzionari presenti della Digos di Brescia, che la stessa notte
cominciano a raccogliere testimonianze e referti dei tifosi feriti.
Quindi la poliziotta di Verona scopre che i filmati dei suoi colleghi,
che in teoria dovrebbero aver ripreso tutti gli scontri, si interrompono
proprio nei minuti in cui Paolo è stato massacrato. Peggio: nella
versione consegnata ai magistrati è stato tagliato il commento finale di
due agenti. "Adesso il questore ci incarna...". "Ascolta, tu prova a
guardare subito le immagini di quando il...". Fine del filmato della
polizia.
Mentre Scaroni passa altri 64 giorni in rianimazione, i
suoi amici di Brescia 1911 si tassano per pagargli le spese legali e
imbandierano la curva con uno striscione mai visto: "Giustizia per
Paolo". Il tam tam unisce decine di tifoserie rivali. In febbraio
Brescia è invasa da ultras di mezza Italia. Un corteo con migliaia di
tifosi, preceduto da uno storico abbraccio tra i capi delle curve
"nemiche" del Brescia e dell'Atalanta. "Non ci interessa che i
poliziotti finiscano in galera, noi vogliamo la verità", dice ora Diego
Piccinelli, il responsabile di Brescia 1911. "Nessuno potrà ridarmi la
memoria o il lavoro", aggiunge Paolo, "ma il mio processo deve fermare i
poliziotti violenti: a scatenare la parte peggiore è la sicurezza di
farla franca".
Come molti altri processi contro uomini
della legge, però, anche questo naviga conrocorrente. Solo la
ricostruzione dei fatti, cioè la demolizione delle bugie ufficiali, è
durata quattro anni. Il pm di turno a Verona aveva chiesto per due volte
l'archiviazione, sostenendo che i caschi impedivano di riconoscere gli
agenti picchiatori. Il rinvio a giudizio è stato imposto da un ex
giudice istruttore, Sandro Sperandio. Ora finalmente si va in aula:
prima udienza il 25 marzo. Ma l'avvocato di parte civile, Alessandro
Mainardi, teme un finale all'italiana: "Rischiamo una prescrizione che
sarebbe vergognosa. Se non c'è certezza della pena per le forze di
polizia, come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella
giustizia? Sulle responsabilità individuali siamo tutti garantisti. Ma
qui, dopo tante menzogne, una cosa è certa: un ragazzo inerme è stato
ridotto in fin di vita da una squadraccia che indossa ancora la divisa.
Uno Stato civile avrebbe almeno risarcito i danni. Invece, dopo cinque
anni, il ministero dell'Interno non si è ancora degnato di offrire un
soldo". Tre mesi fa Paolo ha scritto al ministro Roberto Maroni: "La
violenza va condannata e l'omertà va combattuta prima di tutto da chi
rappresenta la legge". Da Roma nessuna risposta.